La maccaia stringe Genova in una morsa di umidità spaventosa, riducendo l’aria a brandelli di spugna, talmente carichi d’acqua da sentirteli addosso.
Annebbia il cervello con malinconiche ed umidiccie riflessioni settembrine, unite a quelle estive che mi macinavano il cervello già durante gli interminabili viaggi in macchina da sola in direzione Pu.
Riflessioni ovviamente su Pu e sulla vita.
Cosette così, da viaggio di piacere.
E stringe la mia cervicale, come la morsa letale del boa costrictor, inducendomi attacchi nauseanti di labirintite.
Con la labirintite non puoi fare nulla, solo impasticcarti e aspettare che passi, con la sensazione di essere seduti in barca col mare a forza nove, fuggire sì ma dove, zan zan.
E mentre son qui, con una nausea che manco in gravidanza, Feisbuc mi ricorda che un anno fa Pu cominciava l’asilo “dei grandi”, e io mi preparavo al secondo grande distacco.
Intendiamoci: non sono una madre chioccia e oppressiva.
Mollo Pu ai nonni ogni due per tre, per farmi bellamente gli affari miei, tipo un viaggio a Parigi con Magenta, per dirne una.
Ma quest’estate l’ho visto crescere così tanto sotto i miei occhi che più di una volta sarei stata tentata di tirare il freno mano.
Che per fortuna non c’è.
I figli crescono e le mamme imbiancano, Battiato docet.
E’ ineluttabile ed anche giusto.
Ora siamo nella fase del “faccio io, faccio da solo”, e io lo lascio fare, anche se ci mette mezz’ora per infilarsi una maglietta.
A costo di svegliarmi un’ora prima o di arrivare in ritardo.
Deve sperimentare, e lo fa fin troppo e i progressi arrivano fin troppo velocemente.
Guardavo la sua stanzetta vuota quest’estate, e mi dicevo che in fondo non manca tanto.
Lo so, lo so, noi mamme italiani i figli ce li teniamo in casa fino a 40 anni, ma so che per Pu non sarà così.
Mi sono scelta una vita difficile e a volte ho il timore che a farne le spese sia solo lui.
L’indipendenza per lui è una sorta di necessità di sopravvivenza, e spero che possa diventare una risorsa meravigliosa come lo è stata per me, pur essendo un’arma a doppio taglio.
Quando si sta troppo bene da soli diventa difficile concedersi agli altri, ma ogni tanto bisogna scendere a qualche compromesso.
Così continuo a guardarlo da distante, come facevo quando ha imparato a camminare, lasciarlo cadere e rialzare senza intervenire per vedere come se la cavava.
Trattenendo il fiato nell’istante in cui prendeva quella culata per terra, in attesa di vederlo rialzare, con le sue sole forze, ingegnandosi a volte e scoprendo da solo le risorse più efficaci per giungere allo scopo.
Tutta questa manfrina in realtà mi è venuta in mente guardandolo prendere le onde grosse al mare, e una metafora della vita migliore di questa proprio non avrei saputo pensarla.
Lui, che fino all’anno scorso entrava in acqua solo attaccato a me come una cozza allo scoglio, si gettava nelle onde spumose, tuffandosi e restando sotto, in apnea, finché non era passata.
io in apnea con lui, riprendendo a respirare solo quando lo vedevo riemergere.
Giocava con la risacca come si può giocare con gli ostacoli della vita, altre volte affrontava le onde di petto, come cazzotti nello stomaco, cadendo o resistendo, come spero farà di fronte ai problemi che incontrerà sul suo cammino.
Aggrappandosi ai relitti di passaggio per non annegare, o spiegando le vele in veste di capitano, affrontando a testa alta il mare a forza nove, anche senza labirintite.